«Beh, meglio pepsina. Ehi Jane, c'è pepsina nelle secrezioni salivari? Non me lo ricordo più.»

«Bah, nelle mie c'è veleno,» sentenziò Jane. «Ah, Rosalie ha lasciato di nuovo i grumi nel puré.»

Paradine invece volle continuare l'argomento: «Cioè, tu sei in grado di ricavare il massimo nutrimento da quello che mangi, senza sprechi di sorta, e mangiando di meno?»

Scott rifletteva: «Direi proprio di sì, non è questione solo di sp... ehm, saliva; no, io misuro quello che devo mettermi in bocca e cosa devo mescolarvi. Non so spiegarmi il motivo, è così e stop.»

«Uhm,» borbottò Paradine che avrebbe controllato più tardi, «beh, è una teoria nuova, rivoluzionaria.» Certo i bambini spesso si fissavano con delle idee assurde, ma quella teoria di Scott tutto sommato non sembrava tanto assurda. A labbra strette sentenziò: «Già, credo proprio che si finirà con Io mangiare in modo alternativo... sì, non solo questione di cosa si mangia, di cibo, ma di modalità, modo di mangiare. Beh, Jane, Scott promette di diventare un genio.»

«Eh?»

«Si è cimentato in una razionale teoria di dietetica. Scott ci sei arrivato da solo?»

«Certamente,» rispose Scott fermamente convinto di quanto asseriva.

«Ma, da dove hai preso lo spunto?»

«Beh, non...» Scott era palesemente a disagio, «beh, non saprei dire, non so, ma dopotutto, che importanza ha?»

Paradine provò un senso di delusione inspiegabile: «Ma certo tu...»

«Ssssputo!» riuscì a sibilare Emma come in un raptus improvviso. «Sputo!» e si cimentò in una dimostrazione empirica ma nel tentativo si limitò solo a sbavare il bavaglino.

Jane, rassegnata pulì la piccola rimproverandola, mentre Paradine continuava a studiare perplesso il figlio. Dopo cena, quando furono nel soggiorno, ci fu la rivelazione.

 

«Niente compiti oggi?»

«No, no,» rispose Scott arrossendo e per nascondere l'imbarazzo si tirò fuori di tasca un aggeggio trovato nella cassa e cominciò ad aprirlo. Ne venne fuori una specie di tesseratto con delle perline colorate infilate. Paradine non se ne accorse dapprima, ma Emma lo volle per giocarci.

«No, lascia stare Lumaca,» gridò Scott. «Guarda come faccio,» e si mise a trafficare con le perline che tintinnavano sommessamente e allegramente. Emma tendendo un indice cicciottello si mise a strillare.

«Scotty,» ammonì il padre.

«Ma non le ho fatto niente.»

«È stato quell'affare, mi ha morsicato,» piagnucolò Emma.

Paradine alzò la testa perplesso per vedere di che si trattasse.

«Cos'è? Un pallottolliere? Su fammelo vedere, per favore.»

Di malavoglia Scott dovette consegnare l'aggeggio al padre. Paradine sbatté gli occhi, quello che credeva un pallottoliere misurava trenta centimetri per trenta circa ed era un ammasso intricato di fili metallici, rigidi e sottili, incrociati e saldati a tratti. Sui fili correvano le perline colorate che potevano correre per il lungo e anche da un supporto all'altro, addirittura fino alle giunture. Ma, come poteva una perlina bucata superare dei fili incrociati?

Allora, non potevano essere forate e Paradine guardò con maggiore attenzione. Ogni perlina aveva attorno un profondo solco perciò poteva roteare su se stessa e scorrere sul filo metallico. Paradine tentò di estrapolarne una ma senza riuscirci, sembrava magnetizzata. Forse ferro? No piuttosto pareva plastica.

Sebbene Paradine fosse un filosofo e non un matematico non poteva non notare la stranezza del telaio. Gli angoli costituiti dai fili metallici erano contro logica, senza una qualsiasi costituzione euclidea. Erano un labirinto, ma forse quell'affare era semplicemente un rompicapo.

«Scott, dove l'hai trovato?»

«Me l'ha dato zio Harry, improvvisò Scott. «L'altra domenica, sai, quando è venuto in visita.» Scott sapeva che zio Harry non era in città e sarebbe tornato solo dopo parecchie settimane. E Scott temeva di più il fatto di non potersi tenere il suo giocattolo che non il fatto che la sua bugia sarebbe stata alla fine scoperta. Ma a sette anni i bambini sanno che la logica degli adulti viaggia su binari ben definiti e che vogliono sapere chi ha fatto i regali.

 

Paradine cercò di manovrare le perline avvertendo un seccante senso di confusione. Era proprio un rompicapo dove gli angoli erano illogici. Una perlina rossa che scorreva lungo un certo filo, doveva arrivare passando per una certa congiunzione in un determinato punto, ma in realtà non ci arrivava. Era un labirinto molto strano, ma indubbiamente istruttivo. E Paradine sentiva che non avrebbe avuto la pazienza di arrivare alla soluzione di quel rompicapo.

Se non l'aveva Paradine, Scott era determinato e ritiratosi in un angolo del soggiorno cominciò a pasticciare con le perline, a farle scorrere borbottando. Le perline pungevano quando Scott sceglieva quelle sbagliate e le muoveva in una direzione sbagliata. Infine si sentì un urlo di trionfo.

«Papà, ci sono riuscito!»

«Eh, ma... fa vedere.» L'aggeggio sembrava uguale a Paradine ma Scott aveva il dito puntato, ed esultava.

«Sì, l'ho fatta sparire.»

«Ma no, c'è ancora.»

«La perlina azzurra, non c'è più.»

Paradine che era scettico, sbuffò, mentre Scott si rimise alacremente al lavoro sul telaio, facendo nuovi esperimenti. Ora non avvertì più scosse neppure leggere, aveva captato il metodo di lavoro giusto. Il pallottoliere non aveva più segreti, ora toccava a lui continuare. Gli angoli illogici dei fili adesso non erano più così confusi.

Si basava sullo stesso funzionamento del cubo di cristallo. Adesso che ci pensava, se lo tirò fuori dalla tasca e gettò il pallottoliere a Emma, muta dalla gioia. Le dita della bimba cominciarono a fare scorrere le perline senza più lamentarsi per le leggerissime scosse e, dotata com'era di molto spirito di imitazione riuscì a far sparire una perlina quasi altrettanto velocemente del fratello. La perlina azzurra tornò, ma Scott non se ne avvide, poiché si era rincattucciato sul divano, dietro una poltrona a giocherellare col cubo cristallino.

Nel cristallino c'erano omini piccolissimi, ingranditi dalla lente del cristallo. Stavano costruendo una casa, che si incendiò. Scott sbuffò, in orgasmo: «Spegnetele!»

Niente, non successe nulla, non apparve quello strano camion antincendio a braccia rotanti che aveva visto prima. Ma sì, eccolo entrare nel campo visivo e fermarsi. Scott lo esortò.

Scott si stava divertendo, si sentiva come il regista di una pièce teatrale, con la differenza che era realtà. Scott ordinava qualcosa mentalmente a quegli gnomi e gli gnomi eseguivano. Se Scott faceva un errore, aspettavano che trovasse il giusto sistema. Anzi gli ponevano nuovi problemi.

Anche il cristallino era un giocattolo davvero istruttivo. Scott imparava con rapidità preoccupante ma anche apprendendo in modo divertente. L'unica cosa era che non ne ricavava ancora nuove conoscenze. Non era ancora pronto, forse dopo...

 

Emma stufa di giocare col pallottoliere andò a cercare Scott. Poiché non lo trovava, neanche nella sua stanza, arrivò davanti all'armadio e si bloccò affascinata. Vide la cassa, dentro c'era una bambola, un tesoro. Scott aveva già esaminato la bambola e l'aveva accantonata sdegnosamente. Ma Emma con gridolini esultanti si portò la bambola nel soggiorno e seduta per terra cominciò una metodica opera di distruzione.

«Cara, quello cos'è?»

«Mister Bear.»

Non era l'orsacchiotto, ormai orbato di occhi e orecchi, ma aveva una sua sfericità morbida e consolante. Emma chiamava Mister Bear tutte le bambole.

Jane esitava poi si decise: «Ma l'hai presa a un'altra bambina, cara?»

«No, è mia, mia.»

Scott finalmente si avventurò fuori dal nascondiglio, cacciandosi il suo cristallino in tasca. «Ah, quella, è un regalo di zio Harry.»

«Emma, te l'ha data zio Harry?»

«Me l'ha data da dare a Emma,» si affrettò a dire Scott, scalando la sua montagna di bugie. «Sempre l'altra domenica.»

«Emma cara, così la rompi!»

Emma trotterellò dalla madre con la bambola. «Si apre, vedi?»

«Oh, ma è... ugh!» Jane trattenne il respiro e il marito alzò la testa di scatto.

«Beh, che c'è?»

Jane gli portò la bambola e con un'occhiata significativa andò in sala da pranzo. Lui la seguì e chiuse la porta. Jane aveva deposto la bambola sul tavolo ormai sparecchiato.

«Non mi piace molto, Denny, che ne dici?»

«Uhm». In effetti era piuttosto brutta, sembrava un manichino anatomico in una facoltà di medicina, piuttosto che una bambola per bambine.

Era smontabile a sezioni, pelle, muscoli, organi perfettamente miniaturizzati. Paradine almeno così vedeva e si sentiva interessato. «Ma, non saprei, per un bambino certe cose non sono come sembrano.»

«Guarda quel fegato, è il fegato vero?»

«Già, ma, accidenti, guarda qua, che strano.»

«Che cosa?»

«Non è poi perfetta anatomicamente parlando, direi.» Paradine avvicinò una sedia. «Guarda, l'apparato digestivo è troppo corto, non solo e manca l'intestino crasso, e l'appendice.»

«Ma Emma deve tenersi una bruttura come questa?»

«Beh, ti dirò, mi piacerebbe tenermela per me,» ammise Dennis. «Dove diavolo l'avrà pescata Harry? Beh, non c'è niente di male tutto sommato. Agli adulti non piace vedere le interiora, ma i bambini, sono convinti di essere tutti pieni all'interno. Anzi Emma può imparare la fisiologia con questa bambola.»

«Ma guarda quelli, cosa sono? I nervi?»

«Macché, non sono nervi, sono le arterie, e queste sono le vene. Però che aorta strana...» Paradine era sconcertato. «Quella, come si dice in latino rete? Bah, Rita? Rata?»

Jane intervenne distrattamente: «Rales.»

«Ma quella è una specie di respirazione,» infierì Paradine, «non capisco cos'è questa rete luminosa. Percorre tutto il corpo come il sistema nervoso.»

«Forse è il sangue.»

«No, non è il sistema circolatorio, neanche il sistema nervoso. Però, è strano, sembra collegato in qualche modo ai polmoni.»

Entrambi continuarono a meditare su quella strana bambola, costruita in ogni dettaglio perfettamente, il che era già strano di per sé, considerando le varianti fisiologiche. «Un momento, adesso prendo il Gould,» dichiarò Paradine. E si mise a confrontare la bambola con le sezioni anatomiche illustrate. Ma non ne ricavò molto.

Però in fondo questo gioco era più divertente di un puzzle.

Nel soggiorno Emma continuava a far rotolare le perline sul telaio, ma ora non era più un gioco tanto strano, anche quando le perline sparivano. Ora la piccola riusciva a seguire quella nuova direzione, quasi...

Scott intanto, tutto eccitato, continuava a guardarsi il cubo dirigendo mentalmente la costruzione di una struttura molto più complicata di quella distrutta dalle fiamme. Anche Scott, imparando, stava subendo un condizionamento.

Paradine commise un errore, antropomorficamente parlando, non si liberò subito dei giocattoli poiché non poteva capirne il significato e quando riuscì a penetrarlo era troppo tardi. Lo zio Harry era ancora via e Paradine non poté avere una smentita. Per di più, di giorno aveva gli esami che lo stordivano mentalmente e alla sera era completamente sfatto. Jane per una settimana fu malata e Emma e Scott poterono giocare coi loro giocattoli indisturbati e liberamente.

Una sera Scott chiese al padre: «Papà, cos'è una rava?»

«Rapa, hai detto?»

Scott era incerto: «No, non credo. Rava non va bene?»

«La runa è un segno di un antico alfabeto nordico, è forse questa la parola che intendi?»

Scott borbottò: «Nò, non mi pare,» e si allontanò con una smorfia verso il pallottoliere. Ormai aveva acquisito una padronanza eccezionale del gioco. Ma come i bambini che non vogliono essere disturbati nella loro attività, Scott ed Emma giocavano privatamente coi loro tesori. Non in modo troppo evidente, ma non facevano mai esperimenti complessi quando un adulto poteva vederli.

L'apprendimento di Scott era molto veloce, ora la scena che vedeva nel cristallino non aveva più niente a che vedere con i primi problemi elementari. Ora erano problemi tecnici affascinanti. Scott non poteva rendersi conto del fatto che la sua istruzione era controllata e guidata anche se meccanicamente, se lo avesse saputo probabilmente si sarebbe disinteressato al gioco, ma così invece trovava una perfetta rispondenza alla sua iniziativa.

Pallottolliere, bambola, cubo e altri ancora che avevano trovato nella cassa.

Era impossibile per Paradine e la moglie immaginare l'effetto che la macchina del tempo con le sue componenti avrebbero avuto sui bambini. I bambini sono istintivamente degli attori, per difendersi, non si sono adattati alle esigenze degli adulti, esigenze che solo parzialmente possono capire. La vita degli adulti è inspiegabilmente condizionata dalle variabili umane, uno dice loro che possono giocare nel fango, ma scavando non devono sradicare fiori o alberelli. Un altro adulto invece vieta il fango come tale. Anche le tavole della legge sono variabili, non sono scolpite nella pietra. I bambini restano indifesi alla balia di chi li ha generati, li nutre e li coccola e li tiranneggia. Certo il bambino non odia quella affettuosa tirannide perché è così la natura umana, ma è terribilmente individualista e conserva la propria identità, grazie a una opposizione passiva e sottile.

Il bambino cambia quando un adulto è spettatore. Quando se lo ricorda recita e si sforza di compiacere gli adulti e di attirare le luci su di sé, anche se certi adulti fanno lo stesso. Ma se negli adulti la cosa è meno ovvia ed evidente, nei bambini si può notare. I bambini sono dotati di notevole acume e si differenziano dagli adulti perché hanno un processo mentale diverso. Certo, per un adulto è più o meno facile penetrare la finzione di un bambino, ma è vero anche il contrario. Un bambino è spietato quando si tratta di distruggere le finzioni di un adulto. Tra le sue prerogative c'è proprio l'iconoclastia.

Per esempio consideriamo l'affettazione, la falsità dei rapporti di società, resi assurdi dalla convenzionale falsità. Il gigolò

«Oh, che squisitezza di modi! Che savoir-faire!» La vedova danarosa o la ragazzetta ingenua ne possono rimanere colpite, gli uomini sono più severi, ma il bambino colpisce esattamente nel segno.

«Che idiota

Un adulto immaturo non può penetrare il sistema difficilissimo dei rapporti sociali. No, perché considera naturale l'affettazione della cortesia spontanea. Anzi, nella struttura di modelli di vita è rococò. Ma il bambino, animale individualista, non può immaginarsi al posto di un altro, tantomeno al posto di un adulto. Il bambino è un'unità naturale, quasi perfetta, autosufficiente, che delega la soddisfazione dei propri bisogni ad altri. Si potrebbe paragonare a una monocellula che naviga nella circolazione sanguigna, a cui viene portato il nutrimento, e da cui vengono defluiti le scorie.

Logicamente parlando un bambino è terribilmente perfetto, un neonato è la perfezione assoluta, anche se è così alieno per gli adulti che non si possono usare comuni denominatori approfonditi. I neonati prima di nascere sono entità pensanti, nel grembo materno si muovono e dormono, ma non solo per istinto. Un adulto non può certo ammettere che un embrione possa pensare, è al di fuori della sua logica. Si sente sorpreso, si scandalizza, ride, ma nulla che sia umano è alieno.

Un neonato non viene considerato umano, tanto meno un embrione.

Ecco perché Emma veniva maggiormente istruita dai suoi giocattoli di quanto lo fosse Scott. Lui comunicava i propri pensieri, Emma non poteva farlo se non a spezzoni incomprensibili. Esaminiamo gli scarabocchi di un bambino.

Se date a un bambino carta e matita, disegnerà qualcosa che ai suoi occhi non rappresenta la stessa cosa che agli occhi di un adulto. Per un bambino piccolo gli sgorbi hanno poca somiglianza con un camion dei pompieri, sono probabilmente tridimensionali. Il modus di pensare e vedere dei bambini piccoli è diverso.

 

* * *

 

Una sera, leggendo il giornale, Paradine sta appunto meditando su questi problemi, con un occhio a Emma e Scott che stavano parlando. Scott interrogava Emma, spesso in inglese, ma più spesso ancora con parole incomprensibili e con segni. Emma cercava di rispondere ma era chiaramente in difficoltà.

Infine Scott le diede carta e matita ed Emma si rallegrò profondamente. In silenzio scrisse faticosamente un messaggio. Scott prese il foglio lo guardò e storse la bocca.

«No, Emma, è sbagliato,» disse.

Emma annuì con enfasi e ripresa la matita fece altri scarabocchi. Scott meditò un po' poi sorrise incerto e se ne andò nel corridoio. Emma si rituffò sul pallottoliere.

Paradine si alzò e andò a guardare il foglio assurdamente dubbioso che Emma di colpo avesse imparato a scrivere. Ma restò deluso, il foglio era pieno di scarabocchi insensati, i soliti scarabocchi che fanno tutti i bambini. Paradine sporse le labbra.

Il disegno poteva rappresentare un grafico delle variazioni mentali di uno scarafaggio in crisi di sconforto, ma certo era quasi impossibile. Ma per Emma aveva un suo significato. Forse voleva disegnare Mr. Bear.

Scott, con aria soddisfatta, tornò e cercò Emma. Paradine si incuriosì.

«Ehi, che c'è? Un segreto?»

«No, Emma, mi ha chiesto una cosa.»

«Ah.» Paradine ricordò di casi di bambini piccoli che si mettono a parlare linguaggi sconosciuti con grande sconcerto degli adulti. Quando i figli finirono di giocare, si mise il foglio in tasca. Il giorno dopo lo mostrò a Elkins all'università. Elkins che conosceva parecchie lingue assurde, quando vide il parto letterario di Emma, scoppiò a ridere.

«Beh, Dennis, ti farò una traduzione letteraria: Non so cosa significhi, ma mio padre ci impazzirà sopra.»

I due uomini ci risero sopra ed entrarono nelle loro aule. Ma Paradine ignorava che in seguito si sarebbe ricordato della cosa, soprattutto dopo la conoscenza di Holloway. Ma sarebbero passati parecchi mesi prima che la situazione precipitasse al suo culmine.

 

Poiché Paradine e la moglie avevano dimostrato eccessivo interesse per i giochi dei figli Emma e Scott cominciarono a tenerli nascosti e a giocarci solo quando erano soli. Non era una manovra troppo evidente, ma usavano una discreta pazienza che turbò soprattutto la madre.

Una sera ne parlò al marito. «Sai, la bambola che Harry ha regalato a Emma?»

«Beh?»

«Oggi sono andata in città e ho tentato di individuarne la provenienza. Ma è stato inutile.»

«Mah, forse Harry l'ha presa a New York.»

Ma Jane era testarda. «Ho chiesto di farmi vedere qualcosa al negozio, mi han fatto vedere tutto il campionario ma non ho trovato nulla che assomigliasse al pallottoliere di Emma. E pensare che l'emporio di Johnson è un magazzino molto grande e fornito.»

«Già,» Paradine nutriva scarso interesse per l'argomento e poiché avevano i biglietti per il teatro, per quella sera accantonarono la cosa.

Ma doveva saltare fuori più tardi quando una vicina chiamò Jane.

«Senti Denny Scott non l'aveva mai fatto prima. La signora Burns dice che ha terrorizzato il suo Francis!»

«Francis? Quel cicciottello bullo? Uguale a suo padre. Quando eravamo all'università, al secondo anno gli ho spaccato il naso a Burns.»

«Piantala di fare il vanesio e ascolta,» gli disse Jane preparando un coktail, «Scott ha fatto vedere a Francis qualcosa che l'ha spaventato. Non dovresti...»

«Già, penso proprio.» Paradine tese l'orecchio. Dalla stanza vicina gli giungevano i familiari suoni che indicavano la presenza di Scott. «Scotty!»

«Bang!» disse Scotty sorridendo, «Li ho ammazzati tutti quei pirati spaziali. Che c'è papà?»

«Senti, lascia perdere i tuoi pirati spaziali un momento. Cos'hai fatto a Francis Burns?»

Scott lo guardò con i suoi occhi azzurri candidi. «Eh?»

«Senti, Scott, pensaci un attimo, sono certo che lo ricordi.»

«Ah, sì, certo, niente, non ci ho fatto niente.»

«Gli,» lo corresse Jane assente.

«Gli, davvero, papà, gli ho solo fatto vedere il mio televisore e lui, si è spaventato.»

«Il tuo televisore?»

Scott estrasse il cristallino. «Beh, non è che sia proprio un televisore! Eccolo!»

Paradine sbalordito guardò l'oggetto che, benché ingrandisse il contenuto, non mostrava che un labirinto di motivi colorati senza senso.

«Lo zio Harry...»

Paradine allungò la mano al telefono e Scott deglutì. «Zio... lo zio Harry è tornato?»

«Già.»

«Ah, vado a fare il bagno,» e Scott se la filò verso la porta. Paradine annuì a Jane che lo guardava.

Trovò Harry a casa ma non sapeva naturalmente nulla di quei giocattoli. Paradine esasperato ordinò a Scott di portar giù dalla sua stanza tutti i giocattoli che vennero allineati sul tavolo. Il cubo, il pallottoliere, la bambola, la calotta, e altri congegni misteriosi. Scott venne interrogato e mentì con coraggio, ma poi crollò e singhiozzando confessò la verità.

«Fammi vedere la cassa dove hai trovato questa roba,» ordinò Paradine, «poi fila a letto.»

«Ma, papà, mi metti in castigo?»

«Sì, prima perché hai marinato la scuola, poi perché hai detto le bugie. Conosci le regole, per due settimane niente cinema e niente gassose.»

Scott deglutì. «E i giocattoli? Li tieni tu?»

«Non ho ancora deciso.»

«Beh, buona notte, pà. Notte, mà.»

 

Dopo che Scott fu andato in camera sua Paradine si sedette al tavolo e si mise a studiare la cassa, toccando i circuiti fusi, sotto l'occhio attento della moglie.

«Che c'è Denny?»

«Non so, chi può aver abbandonato una cassa di giocattoli in riva al fiume?»

«Forse è caduta da un camion.»

«Non lì. La strada non passa vicino al ruscello, a nord del viadotto ferroviario. Solo campi abbandonati.» Paradine si accese una sigaretta. «Da bere, cara?»

«Certo, subito,» e Jane, turbata, provvide e portò al marito il bicchiere, fermandosi alle sue spalle e spettinandogli i capelli con le dita. «Qualcosa che non va?»

«No, ma, non capisco da dove vengano questi giocattoli.»

«Da Johnson non li hanno mai visti, eppure hanno un assortimento vasto che si fanno mandare da New York.»

Paradine dovette fare un'ammissione. «Anch'io ho controllato, questa bambola...» disse tastando la bambola anatomica. «Ero preoccupato, forse sono giocattoli su ordinazione, ma chissà mai chi li ha fabbricati!»

«Forse uno psicologo... il pallottoliere, non li usano per i loro test?»

Paradine fece schioccare le dita: «Già, vero! Anzi, c'è uno che terrà una conferenza all'università, la settimana prossima, Holloway, specializzato in psicologia infantile. È un pezzo grosso, molto famoso. Forse lui ne sa qualcosa.»

«Holloway? Ma...»

«Rex Holloway! È... abita abbastanza vicino. Pensi che potrebbe averla fatta costruire lui questa roba?»

Jane era china sul pallottoliere e reagì con una smorfia. «Se è opera sua non mi va. Cerca di scoprire qualcosa Denny.»

Paradine annuì: «Non preoccuparti.»

Ingoiò il suo highball con la fronte corrugata. Era sì preoccupato, ma non aveva paura. Non ancora.

 

Rex Holloway era grasso e lucido, calvo con un paio di occhiali a lente molto forti, su cui si agitavano le sopracciglia come due enormi bruchi. Paradine lo invitò a cena, una settimana dopo. Lo psicologo anche se non sembrava interessato ai bambini in realtà li studiava attentamente nelle parole e nelle azioni. I suoi occhi vivi e acuti notavano ogni minimo particolare.

Holloway rimase affascinato dai giocattoli. Tutti e tre, lui, Denny e Jane si riunirono al tavolo del soggiorno che mostrava i giocattoli. Holloway li studiò attentamente, prestando ascolto a quanto dicevano Jane e Denny. Infine parlò.

«Sono contento di aver accettato il vostro invito, ma non completamente. È molto inquietante.»

Paradine sbarrò gli occhi. «Cosa?» Jane era costernata e non fu certo rassicurata da quanto Holloway disse in seguito.

«Questa è pazzia pura.»

Jane e Denny lo guardarono con volti esterrefatti. Holloway sorrise: «Gli adulti considerano tutti i bambini come matti. Avete letto "High Wind in Jamaica" di Hughes?»

«Eccolo qui,» disse Paradine prendendo il libro dallo scaffale. Holloway lo prese e lo sfogliò fino a trovare il passo che cercava. A voce alta declamò:

«"I bambini piccoli non sono umani ovviamente, sono animali dotati di una cultura antichissima e ramificata, come i gatti, i pesci e i serpenti. In confronto a questi animali però la loro cultura è molto più complicata e vivida perché i bambini piccoli non sono che una delle specie più evolute di vertebrati inferiori. Perciò le menti infantili operano secondo termini e categorie specifiche, intraducibili nei termini e categorie della mente umana".»

Jane nonostante lo sforzo non riuscì a prenderla con calma: «Cioè, secondo lei Emma...»

«Lei è in grado di pensare come sua figlia?» chiese lo psicologo, «senta qua: "Un adulto non può pensare come un bambino, come non può pensare come un'ape".»

Paradine che stava preparando da bere, girò la testa. «Ma la sua è solo un'ipotesi, vero? Lei vuol dire che i bambini piccoli hanno una loro cultura e hanno un livello di intelligenza elevato.»

«Non è detto. Non c'è un'unità di misura. Io affermo che i bambini hanno processi mentali diversi dai nostri. Non che devono essere migliori, è una questione di valori relativi. Ma con un'altra estensione...» Holloway si stava sforzando di cercare le parole giuste.

«Sciocchezze,» intervenne Paradine con fare sgarbato, perché era irritato a causa di Emma. «I bambini piccoli non hanno sensi diversi dai nostri.»

Lo psicologo gli ribatté: «Chi dice che ne abbiano? Hanno solo processi diversi. Ma è abbastanza.»

«Beh, io sto cercando di capire,» disse Jane piano. «Mi viene in mente solo il mio Mixmaster, posso montare il burro e le patate ma posso anche spremere le arance.»

«Proprio, una specie. Il cervello è un colloide, una macchina complicatissima. Ignoriamo quasi completamente le sue potenzialità. Ignoriamo anche quanto può afferrare. Ma sappiamo però che la mente viene condizionata durante la maturazione dell'animale uomo, secondo certi teoremi conosciuti e infine il pensiero si basa su modelli accettati come validi. Ecco.» Holloway toccò il pallottoliere. «Ci avete fatto degli esperimenti?»

«Sì, un po',» ammise Paradine.

«Non molto però, vero?»

«Beh...»

«Perché no?»

«Impossibile,» brontolò Paradine. «Anche se è un rompicapo deve avere una logica. Questi angoli sono assurdi...»

«Certo, perché la sua mente è stata condizionata secondo il sistema euclideo. Perciò quest'affare sembra insensato. Ma un bambino ignora Euclide e accetta una geometria diversa dalla nostra. Un bambino crede a ciò che vede.»

«Cioè, secondo lei, questo affare è quadridimensionale?»

«Non visivamente,» ribatté Holloway, «le vostre menti condizionate dalla geometria euclidea vedono solo un groviglio di fili metallici, un intrico privo di logica. Ma un bambino, specie un bambino piccolo, può vederci qualcosa di più, non subito. Ma un bambino non si lascia certo bloccare da idee preconcette.»

«Ah, è l'arteriosclerosi della mente,» sentenziò Jane.

Ma Paradine insisteva, non troppo convinto. «Vuol dire che un bambino se la caverebbe meglio di Einstein nel calcolo sublime? Cioè, non volevo dire questo, si, capisco più o meno quello che lei dice ma...»

«Beh, senta, ipotizziamo che esistano due diverse geometrie, la nostra, la euclidea e un'altra incognita, la geometria x. La geometria x non ha legami con quella euclidea, si fonda su differenti teoremi. Secondo questa geometria x due più due non devono fare necessariamente quattro, potrebbe fare per esempio y2, e potrebbero anche non essere uguali. Un bambino piccolo non è ancora condizionato, a parte per alcuni indiscussi fattori ereditari e ambientali. Se invece lo iniziate a Euclide...»

«Poverino» disse Jane.

Holloway la guardò in tralice. «I fenomeni di Euclide, i postulati fondamentali. La matematica, la geometria, l'algebra sono evoluzioni successive. E noi conosciamo bene questo processo di evoluzione. Se lo iniziate ai principi della geometria incognita x...»

«Principi? Che tipo di principi?»

Holloway guardò il pallottoliere. «Be' noi non potremmo assolutamente capirli, ma noi siamo stati condizionati secondo il sistema euclideo.»

Paradine si versò una razione massiccia di whisky. «Ma, è terribile. La sua teoria non si ferma alla matematica.»

«Infatti, non mi fermo affatto. Infatti non sono stato condizionato alla logica x.»

«Ah, ecco il motivo,» respirò sollevata Jane. «Chi può essere? Dovrebbe essere una persona come dice lei per costruire dei giocattoli di questa visuale.»

Holloway sbatté le palpebre dietro le lenti annuendo. «Forse esiste gente così.»

«Dove?»

«Forse vuol starsene nascosta.»

«Una super razza?»

«Mi piacerebbe saperlo. Paradine, abbiamo della difficoltà con le unità di misura. Quella gente secondo il nostro giudizio potrebbe sembrarci da un certo punto di vista geniale. Da un altro ci sembrerebbe idiota. La differenza è solo qualitativa non quantitativa. Pensano diversamente da noi. Certamente possiamo fare cose per loro impossibili.»

«Ma forse è solo perché non vogliono,» si intromise Jane.

Paradine tamburellò sui circuiti fusi della cassa. «E questa cosa sarebbe? Sembra...»

«Che abbia una sua funzionalità.»

«Trasporto?»

«È quello che si pensa per prima cosa, se fosse così chissà da dove viene la cassa.»

«Già, da un mondo, dove le cose sono... diverse?» esalò lentamente Paradine.

«Proprio così. Nello spazio o addirittura nel tempo. Ma non lo so, io sono uno psicologo, e per di più condizionato da Euclide.»

«Ma dev'essere un luogo ben strano,» disse Jane, «Denny butta via questi giocattoli.»

«Infatti, intendo farlo.»

Holloway prese il cubetto di cristallo. «Ha interrogato a fondo i bambini?»

Paradine rispose: «Sì, Scott mi ha risposto che c'erano degli omini nel cubo quando lo ha guardato la prima volta. Allora gli ho chiesto cosa c'era adesso.»

Lo psicologo spalancò gli occhi. «E cos'ha detto?»

«Che stavano costruendo un edificio, testuali parole. Gli ho chiesto che razza di gente fosse ma non è stato in grado di spiegarmelo.»

«Già, penso proprio di no,» mormorò meditabondo Holloway. «È un processo progressivo; da quanto tempo hanno questi giocattoli?»

«Mah, direi tre mesi circa.»

«Abbastanza. Il giocattolo ideale è quello che è nello stesso tempo istruttivo e meccanico. Deve riuscire a captare l'interesse del bambino e sapere insegnargli, ma in maniera quasi impercettibile. Problemi elementari all'inizio, poi...»

«La logica x,» mormorò Jane pallidissima.

Paradine imprecò piano. «Ma i miei figli sono normalissimi le assicuro!»

«Lei sa come sono i loro processi mentali? Adesso?»

Lo psicologo senza indugiare su quella rivelazione prese in mano la bambola. «Vorrei proprio conoscere le condizioni del luogo di provenienza di questa roba, ma le congetture sono assolutamente sterili. Abbiamo pochi fattori e non possiamo visualizzare un mondo basato sulla logica x, un mondo dove le menti pensano secondo modelli x. Per esempio questa rete luminescente all'interno della bambola, potrebbe essere qualunque cosa, potrebbe essere anche dentro di noi, solo che non lo sappiamo ancora. Quando avremo il colore giusto...» Diede una scrollatina di spalle. «Che ne dice di questo?»

Si trattava di una sfera rosso cupo di cinque centimetri di diametro con una sporgenza sulla superficie.

«Beh, cosa si ci potrebbe fare?»

«Scott? Emma?»

«Sono solo tre settimane che l'ho visto. Emma ha cominciato a giocarci.» Paradine era chiaramente a disagio. «Poi anche Scott si è interessato.»

«Che ne fanno di preciso?»

«Se lo tengono davanti agli occhi muovendolo avanti e indietro. Senza uno schema preciso.»

«Non c'è uno schema euclideo,» corresse Holloway. «Dapprima ignoravano la funzione del giocattolo, dovevano venirne educati.»

«Terribile,» si lamentò Jane.

«No, per loro non è terribile. Emma dev'essere più veloce nella comprensione della logica x, perché la sua mente non è ancora condizionata all'ambiente.»

Paradine ribatté: «Ma io ricordo quello che facevo quando ero piccolo, anche quando ero quasi neonato.»

«E allora?»

«Ero stupido.»

«Già, ciò che non ricorda funge da metro per la sua stupidità,» replicò lo psicologo. «Ma la parola stupidità è semplicemente una simbologia per misurare qualsiasi deviazione dal comportamento conosciuto. Il criterio arbitrario della sanità mentale.»

Jane depose il suo bicchiere e intervenne. «Ha detto che era difficile capire, ma signor Holloway, non mi sembra così difficile partendo da questi giocattoli...»

«Signora, non sono un dilettante. Io sono uno psicologo di psicologia infantile e questi giocattoli hanno un enorme significato, proprio perché sono così incomprensibili.»

«Ma se sbagliasse?»

«Lo spero proprio. Vorrei studiare i bambini.»

Jane si ribellò fieramente. «Cosa?»

Lo psicologo le spiegò delicatamente e lei annuì anche se esitava ancora. «Sì, è giusto, ma non sono cavie.»

Holloway spazzò l'aria con la mano. «Cara signora, non sono Frankenstein. Considero l'individuo il fatto primario, naturale, visto che mi occupo delle menti. Se nei bambini c'è qualcosa di sbagliato voglio guarirli.»

Paradine depose la sigaretta seguendo con gli occhi le volute di fumo che saliva a spirale ondeggiando su una corrente d'aria. «È in grado di fare una prognosi?»

«Ci proverò, ma se le loro menti non ancora sviluppate sono state condizionate al fattore x bisognerà dirottarle e riportarle indietro. Forse non è l'optimum, ma certo è la terapia migliore che conosciamo noi. Emma e Scott sono destinati a questo mondo.»

«Sì, ma non posso pensare che sia successo qualcosa di grave. Sembrano assolutamente normali.»

«In apparenza sì, non sono motivati a comportarsi in maniera anomala. Ma lei come può dire se pensano in maniera aliena?»

«Va bene, ora li chiamo.» disse il padre.

«Oh, niente ufficialità, mi raccomando, non devono alzare le barriere di autodifesa.»

Jane indicò con un cenno della testa i giocattoli e Holloway capì. «Li lasci qui.»

Emma e Scott entrarono nella stanza, ma Holloway non li interrogò direttamente, coinvolse Scott nella conversazione senza lasciare capire, seminando d'ogni tanto una parola chiave. Non si trattava di una indagine evidente come l'associazione di parole e richiedeva perciò completa collaborazione.

Quando Holloway prese il pallottoliere, fece la scoperta più interessante. «Mi faresti vedere come funziona?»

Scott esitava. «Sissignore, ecco...» e faceva scorrere una perlina nel circuito, un circuito tanto complicato che era alla fine impossibile determinare se la perlina fosse sparita o no. Forse era un trucco di mago.

Anche lo psicologo ci si cimentò sotto gli occhi di Scott che aveva un'espressione disgustata.

«Va bene così?»

«Uhm. Deve andare

«Qui? E perché?»

«È l'unico sistema perché funzioni.»

Purtroppo anche lo psicologo era condizionato dalla logica euclidea e non vedeva alcuna ragione perché la perlina dovesse fare quel particolare percorso obbligato. Poi all'improvviso Holloway si avvide che non era lo stesso percorso seguito prima quando Scott aveva messo in funzione l'aggeggio, almeno secondo la sua convinzione.

«Me lo fai vedere di nuovo?»

Obbedendo a Holloway Scott ripeté per due volte l'operazione. Gli occhi di Holloway dietro le lenti sbattevano. Fattore casuale e fattore variabile. Ogni volta il percorso della perlina azionata da Scott era diverso.

Nessuno degli adulti poteva dire se la perlina era scomparsa o no. Se avessero previsto la scomparsa della perlina le loro reazioni sarebbero state differenti.

Alla fine Holloway non era venuto a capo di nulla e si congedò parecchio a disagio.

«Mi permette di tornare di nuovo?»

«Ma certo», disse Jane. «Quando vuole, crede che...»

Holloway fece cenno di sì. «Le loro menti hanno reazioni anomale, non sono stupidi ma sento che arrivano a conclusioni in un modo incomprensibile per noi. Come se loro usassero l'algebra e noi la geometria. Stessa conclusione ma diversi metodi di operazione.»

«E i giocattoli?» chiese Paradine.

«Li chiuda in qualche posto. Vorrei poterli portare via, se è possibile...»

 

La notte fu piena di incubi per Paradine, Holloway aveva usato un termine di paragone piuttosto infelice. Ne derivavano teorie bizzarre e preoccupanti. Il fattore x. I bambini che usavano un equivalente del ragionamento algebrico, di contro agli adulti che usavano quello geometrico.

Poteva essere giusto, ma...

La ipotesi algebrica sa rispondere dove la geometria è incapace perché si avvale di termini e simboli impossibili ad esprimersi geometricamente. E se la logica x avesse originato conclusioni inconcepibili per la logica di un adulto?

«Maledizione!» borbottò Paradine. Jane si mosse.

«Che c'è caro? Non puoi dormire nemmeno tu?»

«No.» Dennis si alzò e andò nella stanza accanto dove Emma dormiva tranquilla come un angioletto; col braccetto abbarbicato a Mister Bear. Dalla porta spalancata si vedeva la testolina di Scott sul cuscino.

Jane si avvicinò al marito abbracciandolo con un braccio.

«Poveri bambini» mormorò. «E Halloway ha detto che sono pazzi, ma i pazzi siamo noi.»

«Già, è che siamo piuttosto scossi.»

Nel sonno Scott si agitava e senza svegliarsi formulò una domanda, ma non in una particolare lingua. Emma rispose con un grido che cambiò tono.

La piccola non si svegliò. Entrambi i bambini dormivano.

Paradine in preda all'angoscia sentiva che Scott aveva chiesto qualcosa a Emma che gli aveva risposto.

Forse i loro processi mentali erano tanto mutati che anche il sonno non era più lo stesso per loro?

Paradine non volle arrendersi a quell'idea. «Dai, prenderai freddo, andiamocene a letto. Qualcosa da bere?»

«Temo di averne bisogno,» rispose Jane guardando la bambina e tendendole una mano, che ritrasse. «Su, andiamo o si sveglieranno.»

Bevvero il loro brandy in silenzio, più tardi Paradine udì la moglie piangere nel sonno.

 

Scott era addormentato, ma la sua mente era vigile e operava una lenta e inesorabile costruzione logica.

«Porteranno via i giocattoli... L'uomo grosso... pericoloso listava. La direzione ghorica non vede... evankrus non li ha. Intrasdezione... lucida e luminosa. Emma, è più khopranica-alta ora che... non capisco come... thavarar lixery dist...»

Se i processi mentali di Scott erano ancora in parte accessibili quelli di Emma erano stati troppo velocemente condizionati dalla logica x.

Anche la bimba stava pensando.

Non come un adulto né come un bambino, anzi non come un essere umano. O meglio come un umano di tipo terribilmente estraneo all'Homo Sapiens.

Talvolta Scott faticava a star dietro ai pensieri di Emma.

Senza Holloway la vita sarebbe tornata ad essere quella di sempre. I giocattoli non erano più ausilii attivi di memorizzazione, Emma giocava con le bambole e la sabbia con l'entusiasmo di una bambina. Scott invece si dedicava al baseball e al gioco del Piccolo Chimico. Erano come tutti gli altri bambini, con scarsi ritorni di anomalia. Ma Holloway era preoccupato.

Continuava a sottoporre i bambini a vari test con risultati deprimenti. Era sempre alle prese con diagrammi e grafici, era in corrispondenza con matematici, ingegneri, colleghi, segretamente infervorato nel tentativo di trovare una spiegazione alla struttura di quei giocattoli. La cassa era troppo enigmatica per suggerire qualcosa, ora che i circuiti si erano fusi in una massa ormai informe. Ma c'erano quei giocattoli...

Era proprio l'elemento accidentale che sfidava ogni qualsiasi indagine, era semplicemente una questione di significati. Ma Holloway non era convinto della accidentalità. Le incognite erano troppe. Nessun adulto poteva far funzionare il pallottoliere e Holloway prudentemente evitava di lasciarlo alla portata di mano di un bambino.

Un altro enigma era rappresentato dal cubetto di cristallo, con il suo assurdo motivo di colori, talvolta mobile. Sembrava lontanamente un caleidoscopio, anche se non era influenzato dalle mutazioni di equilibrio e di gravità. Anche qui c'era il fattore accidentale.

Anzi, l'incognita, il modello x. Paradine e Jane alla fine si rifugiarono in una specie di soddisfazione, paghi di pensare che i bambini erano ormai guariti ora che la causa era stata rimossa. Da certi atteggiamenti dei bambini ritennero inutili ulteriori preoccupazioni.

Emma e Scott facevano cose normalissime, come nuotare, passeggiare, andare al cinema e giocare con i giocattoli normali. Non sapevano comprendere certi congegni meccanici sconcertanti che richiedevano dei calcoli, come per esempio un globo smontabile a tre dimensioni scelto dal padre. Ma anche per lui era difficoltoso montarlo.

Qualche volta c'era una ricaduta, come un sabato pomeriggio in cui Scott passeggiava col padre. Si fermarono in cima a una collina che sovrastava una meravigliosa vallata.

«Bella, vero?» osservò Paradine.

«Completamente sbagliata,» osservò Scott contemplando seriamente il paesaggio.

«Cosa?»

«Non so.»

«Che ha di sbagliato?»

«Mah...» Scott ammutolì perplesso. «Non so.»

 

I bambini non avvertirono a lungo la mancanza dei loro giocattoli. La prima a riprendersi fu Emma, mentre Scott mugugnava ancora. Faceva con la sorellina dei discorsi incomprensibili e studiava gli sgorbi che Emma disegnava sui fogli che lui le dava. Sembrava quasi che Emma facesse a Scott da consulente su problemi troppo difficili per lui.

Emma era più intuitiva, ma Scott era più intelligente e più abile manualmente. Con il meccano costruì un congegno che però non lo soddisfò. Invece Paradine ne fu sollevato quando vide l'attrezzo costruito dal figlio. Era come quello che tutti i bambini normali costruiscono. Assomigliava un po' a una nave cubista.

A Scott non piaceva, perché troppo pedissequa. Interrogò di nuovo Emma, da solo a sola. La piccola rifletté un po' poi impugnando goffamente la matita disegnò alcuni sgorbi.

«Sai leggere quei geroglifici?» chiese un giorno Jane a Scott.

«Non è che li leggo, mamma, capisco cosa intende Emma. Non sempre, ma abbastanza spesso.»

«Ma è una specie di scrittura?»

«No, non è affatto quello che sembra.»

«Simbolismo,» suggerì Paradine nella pausa del caffè.

Jane spalancò gli occhi guardando il marito. «Denny...»

Paradine scosse il capo ammiccando, poi quando furono soli disse: «Non devi lasciarti impressionare da Holloway. Non credo che Scott ed Emma si parlino in una lingua sconosciuta. Se Emma disegna uno scarabocchio e dice che è un fiore, è un suo decreto arbitrano. Scott ricorda e la prima volta che Emma fa lo stesso sgorbio o cerca... bah!»

«Già, certo,» fece Jane perplessa, «hai visto che Scott legge un sacco ultimamente?»

«Sì, ma niente di eccezionale, né Kant né Spinoza.»

«Beh, li sfoglia, ecco.»

«Ma anch'io facevo così alla sua età,» rispose Paradine mentre usciva per le lezioni del mattino. Pranzò in compagnia di Holloway come ormai faceva sempre e parlò delle attitudini letterarie di Emma.

«Era giusto parlare di simbologia Rex?»

Holloway fece cenno di sì. «Già, il nostro linguaggio ormai è pura simbologia arbitraria, almeno nella applicazione pratica. Ecco guardi,» disse tracciando sul tovagliolo una curva ellissoidale. «Cos'è?»

«Cioè, cosa rappresenta?»

«Sì, cosa ci vede? Potrebbe essere una raffigurazione elementare di... di che?»

«Parecchie cose,» rispose Paradine. «Potrebbe essere l'orlo di un bicchiere, un uovo fritto, una pagnottella francese, un sigaro.»

Holloway aggiunse un triangolino unito per la punta a una estremità dell'ellisse. Poi guardò Paradine.

«Un pesce,» sbottò Paradine.

«Già, il nostro modo di simboleggiare un pesce, anche se non ha pinne né occhi né bocca. Lo riconosciamo come tale perché condizionati a identificare questa immagine alla nostra rappresentazione mentale di pesce. Un simbolo significa in effetti molto più di quanto vediamo disegnato. Cosa pensa quando guarda questo simbolo?»

«Mah, penso a un pesce.»

«Avanti, ciò che vede in... tutti i particolari!»

«Beh, penso alle scaglie,» proferì Paradine con lo sguardo perso nel vuoto. «All'acqua, alla schiuma del mare. All'occhio, alle pinne, ai colori.»

«Vede che il simbolo è molto più ampio dell'astrazione del pesce. La connotazione è sostantivale non verbale. È più difficile esprimersi simbolicamente dunque. Invertiamo ora la sequenza. Vuol tracciare il simbolo di un altro sostantivo, un uccello, per esempio. Su disegni.»

Paradine disegnò due archi uniti con la concavità verso il basso.

Holloway annuì: «Il minimo comune denominatore, la tendenza a semplificare, soprattutto quando un bambino vede per la prima volta una cosa e non ha quasi termine di paragone. L'istinto è di identificare la novità con una cosa che già conosce. Ha mai notato l'oceano disegnato da un bambino?» Senza aspettare risposta proseguì infervorato.

«Una sequela di punte irregolari, una linea tremolante come quella tracciata da un sismografo. Quando ho visto per la prima volta il Pacifico avevo tre anni e lo ricordo bene; sembrava... curvo. Una distesa piatta ma inclinata; le onde erano triangoli regolari coi vertici verso l'alto. Ora non le vedo più così stilizzate, poi quando ci ripensavo dovevo trovare un termine di paragone che mi era noto. Questo è il solo modo di farsi l'idea di una cosa completamente sconosciuta. Il bambino cerca di disegnare triangoli regolari, ma non ha sufficiente coordinazione e ottiene un grafico vacillante.»

«Che vuol dire?»

«Un bambino vede l'oceano. Lo stilizza e disegna uno schema preciso che ha il significato del mare. Anche gli sgorbi di Emma sono dei simboli. Non che per lei la realtà è diversa, più bella, luminosa e nitida, con percezioni attenuate al di sopra delle sue capacità di percezione. No, è che i suoi processi mentali sono diversi e lei traduce la realtà che vede in simboli anormali.»

«Ma lei pensa tuttora...»

«Già, la mente di Emma è stata condizionata stranamente. Forse la bambina scompone quello che vede in schemi semplicistici e comprensibili, a cui attribuisce un significato incomprensibile per noi. Guardi il pallottoliere per esempio, anche se per noi era completamente randomizzato Emma vi vedeva un certo schema.»

 

Fu così che Paradine di colpo decise di diminuire la frequenza delle sue colazioni con lo psicologo, Holloway era troppo allarmista, ricorreva a tutto quanto poteva confermare le sue teorie che si facevano sempre più fantastiche.

Ironicamente azzardò una domanda: «Cioè, secondo lei Emma parla con Scott in un linguaggio ignoto?»

«Proprio, con simboli che non sono traducibili in parole. Certo Scott capisce la maggior parte di quegli sgorbi. Un triangolo isoscele per Scott può essere qualsiasi cosa, anche se con molto probabilità è simbolo di un sostantivo. Un uomo completamente a digiuno di nozioni chimiche non potrebbe certo capire il significato di H2O nò potrebbe comprendere come tale simbolo o formula può simboleggiare un oceano.»

Paradine non seppe rispondere e invece riferì a Holloway la stramba osservazione di Scott sul panorama della vallata vista dall'alto della collina, che era tutto sbagliato. Ma subito si pentì della confessione vedendo che Holloway si era lasciato prendere la mano dalla questione.

«Sì, gli schemi mentali di Scott arrivano a una conclusione che non corrisponde al nostro mondo, forse nell'inconscio si aspetta di poter penetrare il mondo da dove provengono quei giocattoli.»

Paradine non lo ascoltò più, era nauseato. I bambini erano di nuovo come prima e l'unico fattore di turbamento era solo lo psicologo. La sera stessa Scott fu interessato alle anguille, episodio che si sarebbe in seguito dimostrato significativo.

Nella storia non vi era nulla che potesse sembrare seppur minimamente pericoloso e Paradine illustrò le anguille.

«Ma depongono le uova? E dove?»

«Non si sa ancora, si ignora dove si riproducono, forse nel Mar dei Sargassi o comunque a grandi profondità, perché la pressione aiuta i piccoli a uscire dai corpi.»

Scott che rifletteva pensieroso sbottò: «Strano.»

«È la stessa cosa per i salmoni, più o meno. Questi risalgono i fiumi per riprodursi.» Scott ascoltava affascinato il padre.

«Certo, papà, è giusto. Nascono nei fiumi e quando sanno nuotare scendono verso il mare, ma poi risalgono i fiumi per deporre le uova, è così?»

«Sì, è così.»

«Ma, perché tornare indietro...» osservò sempre pensieroso Scott, «quando basterebbe mandare le uova...»

«Beh, ci vorrebbe un ovipositore estremamente lungo,» osservò di rimando il padre, esponendo alcune osservazioni sugli ovipari.

Ma Scott non era appagato completamente, infatti i fiori, disse, potevano proiettare i loro semi.

«Sì, ma non sanno guidarli, e poi tra tanti semi solo alcuni trovano terreno fertile.»

«I fiori non pensano. Papà, perché la gente vive qui?»

«Qui, a Glendale?»

«No, qui, in questo posto, scommetto che non è tutto qui.»

«Vuoi dire tutti gli altri pianeti?»

Scott era esitante. «Cioè, voglio dire, questa è solo una parte di un enorme posto, è come il fiume dei salmoni. Perché la gente, quando cresce, non scende nell'oceano?»

Scott parlava in modo figurato e Paradine provò un brivido al riferimento dell'oceano.

I giovani della specie non sono condizionati a vivere nel mondo compiuto dei loro procreatori, una volta raggiunto lo sviluppo sono ammessi a questo mondo dove si riproducono. Le uova fecondate sono seppellite nella sabbia presso le sorgenti dei fiumi dove poi si schiuderanno.

I piccoli apprendono, poiché il solo istinto è molto lento nell'apprendimento, soprattutto se si tratta di una specie particolare, che non sa adeguarsi anche a questo mondo ed è incapace di mangiare e bere per sopravvivere, a meno che qualcuno non provveda ai suoi bisogni.

I giovani, una volta nutriti e curati sono in grado di sopravvivere, grazie anche a incubatrici a robot. Però non sono in grado di discendere la corrente per andare a tuffarsi nell'immensità dell'oceano.

Per questo è necessario l'insegnamento, l'istruzione e anche il condizionamento.

Certo senza traumi, con discrezione, in modo indolore, i bambini amano i giocattoli che si muovono, meglio se poi sono giocattoli educativi...

 

Nella seconda metà del secolo decimonono, un uomo sedeva sulla sponda di un ruscello in Inghilterra, e aveva accanto una bambina con gli occhi rivolti al cielo. Poco distante c'era uno strano giocattolo di cui si era stancata, e lei ora canterellava una nenia senza parole, che l'uomo ascoltava distratto.

«Cos'era tesoro?» chiese alla fine.

«Oh, zio Charles, una cantilena che ho inventato io.»

«Beh, allora fammela sentire di nuovo,» disse l'uomo tirando fuori un notes.

La bambina si rimise a cantare.

«Ha un significato?»

La bambina fece cenno di sì. «Certo, come le storie che ti racconto sempre.»

«Ah, certo cara, sono bellissime.»

«Le metterai in un libro un giorno?»

«Certo, ma dovrò modificarle, altrimenti nessuno potrebbe capirle come sono, ma la tua canzoncina la lascio così.»

«Non devi cambiarla, o non significherebbe più niente.»

«Certo, cara, comunque questa strofa la lascio così,» promise l'uomo. «Cosa vuol dire?»

La bambina rispose seria: «È la via d'uscita, mi sembra non ne sono sicura, ma me l'hanno detto i miei giocattoli magici.»

«Chissà in quale negozio di Londra vendono quei giocattoli.»

«Me li ha comprati la mamma, ma è morta. A papà non piacciono.»

Non era vero, la piccola aveva trovato quei giocattoli in una cassa, mentre giocava in riva al Tamigi, ma erano davvero meravigliosi.

Lo zio Charles credeva che la sua canzoncina non significasse nulla, era simpatico lo zio Charles anche se non era proprio uno zio vero, ma la canzoncina era importantissima; perché era la strada, e lei avrebbe fatto quello che le ordinava.

Ma era destino che non trovasse la strada, perché era troppo grande ormai.

 

Ormai Paradine aveva messo una croce su Holloway e Jane lo odiava, perché a lei interessava solo spegnere i propri timori. Ormai Scott ed Emma si comportavano normalmente e Jane era contenta. Ma il marito non riusciva ad accettare completamente quella che era una illusione.

Scott ricorreva sempre alla sorellina per farsi approvare dei congegni sempre più strani. Emma scrollava la testa, talvolta era dubbiosa, raramente era d'accordo. Per un'ora compilava scarabocchi furiosamente, a fatica, su dei fogli. Scott studiava gli appunti di Emma e poi sistemava variamente i suoi sassi, i pezzi di macchinario, i mozziconi di candela e le sue cianfrusaglie. Ogni giorno Scott ricominciava anche se la cameriera ramazzava via tutto.

Infine Scott si decise a dare delle spiegazioni al padre che non ci capiva nulla in quel gioco assurdo.

«Ma perché metti quel sasso proprio qui?»

«Papà, è duro e tondo e va messo lì.»

«Beh, anche questo è duro e tondo.»

«Sì, è unto di vaselina, arrivati in questo punto non si può vedere solo una cosa dura e tonda.»

«Poi che c'è? La candela?»

Scott lo osservò con disgusto. «Ma quella va alla fine, ora ci va l'anello di ferro.»

Paradine non poteva fare a meno di pensare ai segnali che i boy scout lasciano nel bosco, come indicazioni in un percorso intricato e difficile. Anche lì non mancava il fattore arbitrario, la logica, quella umana, si bloccava senza riuscire a capire le motivazioni che spingevano Scott a disporre le sue cianfrusaglie in quel modo.

Paradine si alzò per andarsene e girandosi indietro vide il figlio estrarre dalla tasca carta e matita e poi andare verso Emma che stava pensando in un angolo.

Incredibile e illogico.

 

Era un caldo pomeriggio estivo e Jane era a pranzo con lo zio Harry e Paradine non avendo altro da fare si sistemò nell'angolo più fresco che trovò a leggere, con un Collins e si tuffò nella pagina dei fumetti.

Si era addormentato, quando dopo un'oretta, si svegliò al rumore di passi al piano superiore. Scott stava gridando: «Lumaca, ci siamo! Vieni...»

Paradine perplesso balzò in piedi e si precipitò nel corridoio. In quel momento il telefono squillò. Doveva essere Jane.

Mentre stava per alzare il ricevitore Emma lanciò un grido di eccitazione. Paradine abbozzò una smorfia, non riuscendo a capire cosa succedeva di sopra.

Sentì Scott urlare: «Attenzione! Ecco così!»

Paradine con un senso di agitazione crescente lasciò il telefono e corse di sopra. La porta della stanza di Scott era aperta.

I due bambini stavano scomparendo.

Era una sparizione che procedeva a frammenti, i bambini si cancellavano come fumo nel vento o come il movimento in uno specchio deformante. Con la mano nella mano svanivano verso una direzione che il padre non captava. Paradine se ne stava imbambolato sulla porta a guardare i bambini che erano ormai spariti.

«Emma!» urlò angosciato, «Scotty!»

Per terra sul tappeto c'era un percorso di sassi, un anello, varie cianfrusaglie, uno schema arbitrario; un foglietto spiegazzato si levò in volo verso Paradine.

Automaticamente lo raccolse.

«Ehi, bambini, dove siete? Dove vi siete nascosti?»

«Emma! Scotty!»

Da basso il telefono smise di squillare e Paradine rivolse la sua attenzione al foglietto.

Era una pagina di un libro, con delle sottolineature e note a fianco, sugli scarabocchi assurdi di Emma; una strofa era tutta pasticciata e sottolineata. Quasi illeggibile, ma Paradine la conosceva bene. Era tratta da «Through the Looking Glass». Ne ricordò le parole:

Era brilligo e gli unsci tovi

Girondavano sulla rava

Eran birbizzi i borogovi

E il momo ratso ultragrattava

Già, pensava Paradine, Humpty-Dumpty l'aveva spiegato. Una rava è il tratto erboso attorno a una meridiana. Una meridiana, il tempo. Ha un legame col tempo. Scotty gli aveva chiesto cos'era una rava. Era simbolismo.

Era brilligo...

Una formula matematica completa, con le indicazioni delle condizioni, in una simbologia che i bambini avevano alla fine capito. Gli oggetti per terra, i tovi dovevano essere resi unsci... unti e lisci, con la vaselina. E poi andavano sistemati in una certa relazione per girondare.

Era pazzia pura!

Ma non per Emma e Scotty, avevano solamente pensato in modo diverso, avevano usato la logica x. Emma traduceva in sgorbi le parole di Carroll, in simboli accessibili a lei e a Scott.

Il fattore arbitrario aveva un senso compiuto per i bambini che avevano completato le condizioni dell'equazione spazio-temporale. E il momo ratso ultragrattava...

Dalla gola di Paradine gorgogliò un terribile suono, con gli occhi fissi sullo schema del tappeto, incomprensibile a lui come era stato comprensibile per i bambini. Era tagliato fuori, per lui lo schema era illogico, e il fattore arbitrario lo confondeva, perché lui era condizionato a Euclide.

Avrebbe potuto impazzire, ma non ce l'avrebbe fatta lo stesso, era una follia inadeguata.

Nella sua mente era sceso il vuoto, ma poi l'immobilità dell'orrore sarebbe passata. Paradine stropicciò il foglietto tra le mani. «Emma, Scotty» la voce era spenta, rassegnata a non trovare risposta.

Il pelo dorato di Mister Bear luccicava al sole che entrava dalle finestre aperte. Da basso si udì di nuovo il telefono.

 

R.U.Q.

Q.U.R.

di Anthony Boucher

Astounding, marzo

 

«Anthony Boucher» era lo pseudonimo impiegato da William Anthony Parker White per la maggior parte delle sue opere di fantascienza e fantasy, per i racconti e i romanzi gialli e per gli scritti critici riguardanti il settore del poliziesco. «Boucher» si servì invece dello pseudonimo «H.H. Holmes» per firmare gran parte dei suoi lavori critici riguardanti la fantascienza sia sul «Chicago Sun Times» che sul «New York Tribune» negli Anni Cinquanta e nei primi Anni Sessanta come pure per firmare due romanzi gialli. Uomo di grande saggezza e grande arguzia questo scrittore è meglio noto nel campo della fantascienza per essere stato il condirettore e fondatore (col defunto J. Francis McComas) della «Magazine of Fantasy and Science Fiction» e l'autore di un buon numero di ottime storie di fantascienza e fantasy.

Q.U.R. che apparve a firma di «Holmes» è uno dei primi racconti in cui un robot compare in forma diversa da quella di umanoide, una storia quindi innovativa oltre che molto brillante.

 

(Ormai mi sono quasi messo in testa di avere io il brevetto delle storie dei robot o, almeno, che a nessun robot sia nella realtà che nella narrativa sia concesso di deviare dalle tre leggi della robotica. Naturalmente questa da parte mia è solo una fantasia, ma sufficientemente innocua, almeno così spero. In ogni caso i miei robot non sono usoformi e in più di un'occasione ho combattuto con veemenza l'idea dell'usoformità. Comunque Tony Boucher mi è sempre piaciuto talmente (e a chi non piaceva?) che non mi sarei mai sognato di dargli contro. Così se lui vuole fregarsene del mio brevetto, ebbene che faccia pure, dico. E se per caso vi state chiedendo cosa diavolo sia l'usoformità, non avete che da leggere questa storia. I.A.)

 

Sembra proprio che ormai i giovani germogli d'oggi non abbiano mai sentito parlare degli androidi. Oh, li vanno a vedere nei musei e ne leggono i brani che li riguardano nella letteratura del tempo, ma non sembrano rendersi conto di quanto un tempo gli androidi formassero una parte essenziale della vita e di come tutta la nostra civiltà dipendesse proprio da loro. E quando dici loro che hai cominciato ad aprirti la strada del mondo facendo il controllore in una fabbrica di androidi, ti guardano come se avessi detto di aver lavorato negli spettacoli bidimensionali prima dei 3D, come se anche il tuo posto fosse in un museo.

Ora, d'accordo che non sono esattamente un lattante; e infatti non rivedrò un'altra volta un secolo intero, ma non sono neanche un pezzo d'antiquariato. E penso che sia davvero un peccato che la nuova generazione abbia perso così ogni collegamento con l'ultimo secolo. Non che sia mai stata mia intenzione di scrivere le mie memorie; non mi sono costruito la vita con quelle mire, ma qualcuno dovrà pure raccontare la vera storia di ciò che significavano gli androidi e di come a un certo punto non importavano più. E io sono proprio l'uomo adatto a raccontarla perché sono colui che ha scoperto Dugg Quinby.

Sì, ho proprio detto Quinby. Dugglesmarther H. Quinby, la Q che sta nella sigla R.U.Q. L'uomo che ha indirizzato la vita su quei binari su cui scorre oggi. E sono stato io a trovarlo.

Quell'estate fu una stagione infernale per un controllore di androidi. Non ci furono altro che guai. Le mie cinque ore di lavoro giornaliero divennero otto e poi dieci e anche dodici mentre correvo da un punto all'altro di New Washington per controllare un androide dopo l'altro, tutti androidi che avevano cominciato a dare i numeri. E magari sapete come fa caldo in estate nel Distretto Metropolitano, è ancora peggio che nel resto dell'Oklahoma.

E poiché il mio non era esattamente un lavoro che si poteva eseguire comodamente in edifici e strade ad aria condizionata, ciò significava che dovevo uscire all'aperto, arrampicarmi in alto e insomma andare dappertutto dove poteva lavorare un robot. Allora gli androidi li chiamavano robot, perché non avevamo concepito nessun tipo di robot che non fosse androide o almeno un naturoide.

E questi guasti si verificavano dappertutto, colpendo i robot di ogni settore di attività. Perfino i martoidi e i veneroidi che alcuni ex coloni tenevano come servitori. Poteva trattarsi di un braccio che perdeva ogni traccia di vita o di una gamba che si rattrappiva o di un tentacolo che subiva un collasso. A volte si verificavano anche disturbi mentali, lievi indicazioni di una tendenza all'insubordinazione, perfino una specie di mania che non era prevista in loro. E i guasti si diffondevano sempre più, andando via via nettamente peggiorando. Se si fosse manifestata una cosa simile tra gli esseri viventi si sarebbe pensato a un'epidemia, ma che razza di germi potevano attaccare delle macchine di duralite temperata?

Il peggio era che queste macchine non avevano assolutamente niente. Niente che mi fosse possibile rilevare, e quindi per me erano sanissime. Non si diventa controllore capo alla Robinc se ci si lascia sfuggire qualcosa. Il secondo guaio era che il fenomeno cominciava anche a colpire la mia squadra. Io avevo avuto all'inizio sei robot sotto di me... in numero più che sufficiente per far fronte a qualsiasi normale emergenza, ma adesso ero ridotto solo a due e ne avrei avuto bisogno di quaranta.

Così nel complesso quel pomeriggio non ero affatto felice. Né mi rese ancora più felice il fatto di vedere una folla di fronte al Sunspot impegnatissima in quell'allegro passatempo che consisteva nel tormentare i venusiani. Non era mai sicuro per quei piccoli esseri verdi avventurarsi fuori dal ghetto loro riservato; ormai quello sport era uno spettacolo fin troppo usuale.

La folla gli aveva strappato l'inalatore di vapore. Il gioco consisteva solo in quello, ma era più che sufficiente. Non erano davvero necessari tormenti extrafisici. Adesso quel povero pescione giaceva sul marciapiede e boccheggiava come un pesce fuor d'acqua, e in effetti era proprio così. Gli uomini, per lo più dirigenti di fabbrica e qualche capufficio, erano disposti in cerchio attorno a lui e sghignazzavano. Perché c'era gente che trovava tremendamente divertente lo spettacolo di un pesce che boccheggiava e annegava in un mare d'aria, sebbene io non avessi mai capito cosa ci fosse di tanto allegro.

Oh, naturalmente, all'ultimo momento gli avrebbero restituito il suo inalatore; non uccidevano mai i venusiani infatti, in quanto quei pochi esseri che c'erano sulla Terra avevano dei compiti ben precisi, in particolare quello di riparare i robot veneroidi che venivano impiegati sott'acqua. Ma intanto si sarebbero divertiti.

Nonostante il calore della giornata, provai un leggero brivido. Poi passai dal lato opposto della strada perché non mi andava di osservare quel gioco crudele. Ma mi voltai di colpo quando sentii un selvaggio grido di furore.

Fu allora che feci conoscenza con Dugg Quinby. Quel grido fu l'unico suono che emise mentre, in preda a una furia silenziosa, si abbatteva su quella massa di uomini e trovato il più grande e grosso di loro gli strappava dalle mani l'inalatore per passarlo al suo proprietario ormai ridotto agli stremi. Ma anche gli altri sollevarono una gran cagnara.

Avete mai provato a strappare un osso a un cane? O un sigaro a un uomo dei monti marziano? Be', in questo caso fu anche peggio. Quei ragazzi si erano risentiti per quell'intervento che aveva rovinato loro tutto il piacere e espressero il loro disappunto con forza.

A me quel gigante biondo e giovane che si era gettato impetuoso nella mischia piacque subito. Mi piacque perché il suo intervento mi indusse a chiedermi perché avevo attraversato la strada per passare sull'altro lato e non avevo trovato una risposta decente. L'unico modo per dare una risposta era di ritornare indietro.

Androidi o R.U.Q., astronavi a una marcia o astronavi moderne a marce multiple, una cosa che non cambia mai nel tempo è una rissa e questa era proprio una rissa coi fiocchi. Non so chi mi colpì al mento mentre mi gettavo in mezzo e non so a chi era diretto quel colpo, ma era proprio ciò di cui avevo bisogno. Il colpo non fu abbastanza centrato da stordirmi per più di un minuto, ma fu abbastanza doloroso da risvegliare il mio istinto battagliero al punto che l'unica cosa che ormai mi interessasse era di trovare dei bersagli per i miei pugni. Così vendicai il venusiano, vendicai il giovane biondo, vendicai la calura del giorno e la piaga dei robot. Vendicai il mio lavoro, i miei calli e anche il doposbornia di due settimane prima.

 

Il primo particolare che mi è chiaro è di essermi ritrovato seduto all'interno del Sunspot, non so quanto tempo dopo. Il ragazzone biondo era con me e con noi c'era anche uno degli uomini della fabbrica. Tutti e tre sembravano grandi amiconi ed era impossibile dire a chi apparteneva il sangue che ci ricopriva.

Guzub era raggiante. Quando si conoscono bene i marziani si scopre che quel loro trucco di chiudere l'occhio centrale gli fa emettere come un raggio. «Certo gli avete dato una bella lezione, ragazzi,» gorgogliò.

L'uomo della fabbrica si tastò il collo e si accertò di avere ancora la testa al suo posto. «Guzub,» dichiarò. «Ho imparato la lezione. D'ora in poi qualsiasi branchie verdi è al sicuro accanto a me.»

«Ben deddo,» fece Guzub. «Dopo duddo, siamo duddi esseri vivendi, no? Allora, cosa si beve?»

Guzub ci rimase male quando il giovanotto biondo ordinò del latte, ma fu poi ben felice quando l'uomo della fabbrica gli disse che avrebbe preso un Triplanetario con una doppia dose di margil. Io non sono certo un astemio, ma non mi vanno neanche delle bevande così forti, per cui mi attenni al mio solito whisky liscio.

Intanto che aspettavamo ci presentammo. L'uomo della fabbrica si chiamava Mike Warren, e l'altro (ma ormai ve l'ho già rivelato) si chiamava Quinby. Tutti e due mi conoscevano di nome.

«Così lei lavora con la Robinc,» disse Mike. «Una volta o l'altra vorrei scambiare due chiacchere con lei. Mio cognato ha trovato un nuovo modo di impiegare i robot; un modo che potrebbe far guadagnare a tutti, me compreso, un sacco di crediti, ma non riesco a farmi ascoltare da nessuna parte.»

«Ben lieto di farlo io,» gli dissi, ma in realtà senza prestargli molta attenzione. Sapete com'è. Tutti hanno sempre qualche nuovo modo di sfruttare i robot, proprio come gli scrittori mi dicono che tutti hanno sempre una bellissima idea per una trama di film.

Dugg Quinby fino a quel momento aveva continuato a guardare davanti a sé con sguardo sperso e non aveva ascoltato. Adesso però disse: «Ciò che non capisco è perché.»

«Be',» cominciò Mike. «Sembra che una volta lui sia rimasto bloccato sul deserto lunare e...»

«Uh-uh. No, non mi riferivo a quello. Ciò che non comprendo sono i venusiani. Perché noi ci comportiamo a quel modo con loro, voglio dire. Dopo tutto sono esseri più o meno simili a noi. Sono dei bipedi senza piume, di forma abbastanza simile a noi. E noi li trattiamo come se neanche fossero degli esseri viventi. Invece i marziani che sono una razza del tutto diversa, anche fisicamente, non li maltrattiamo né abbiamo dei ghetti per loro.»

«È appunto questo il guaio,» disse Mike. «I venusiani sono troppo simili a noi. E a noi sembrano delle caricature. Quando li vediamo ci ricordano una barzelletta sporca sugli esseri umani e allora vediamo rosso. Voglio dire,» aggiunse in fretta, strofinandosi il collo con la mano,» così almeno è come pensavo prima. Stavo solo cercando di fornire una spiegazione.»

«Balle,» dissi io. «È solo una questione di parallelismi storici. Noi abbiamo dato una bella batosta ai venusiani con la Prima Guerra di Conquista, così siamo convinti di poter fare i gradassi con loro. La Seconda Guerra di Conquista invece è andata male per noi e per poco non ci abbiamo rimesso l'Impero e anche la pelle, per cui abbiamo un salutare rispetto per i marziani.» Gettai un'occhiata verso il barista i cui tentacoli attendevano industriosamente a una sfilza impressionante di bottiglie e a un lucente shaker di duralite. «Noi ce la prendiamo solo con quelli con cui non c'è pericolo di buscarle.»

Quinby aggrottò la fronte. «È già abbastanza brutto fare qualcosa che non si dovrebbe, ma farla solo quando si sa di non correre rischi... così almeno ho letto,» annunciò poi bruscamente come se quel pensiero rischiasse di scatenare un'altra battaglia.

Mike grugnì. «Cinema e televisione sono già sufficienti per un uomo, lo dico sempre. Se poi si comincia anche a leggere ci si confonde le idee.»

«Perché altrimenti non ce le si confonde? Non pensa che siamo già tutti confusi? Se solo la gente cercasse di vedere chiaro nelle cose...»

«Che cos'è che hai letto?» gli chiesi.

«Vecchia roba che risale a, bah, un millennio fa o giù di lì. Allora c'era gente che scriveva parecchio sulla Fratellanza Umana. Dicevano delle cose giuste. E per noi ha un significato oggi solo se si traduce questo termine con Fratellanza degli Esseri. L'uomo si è unificato, ormai, ma qual è il risultato? La dottrina della Supremazia Terrestre.»

Guzub arrivò con le bevande e tirammo fuori i conquibus. Quando sentì la frase «Supremazia Terrestre», però, la palpebra del suo occhio sinistro tremolò leggermente, il che in un marziano esprimeva una cortese incredulità, ma non disse nulla.

Quinby prese il suo latte. «E tutto perché la gente non vuole andare a fondo delle cose. Tutti si limitano a considerare le cose entro il confine dei propri pregiudizi. Se invece si esamina un problema a fondo, si vede che il problema non sussiste neanche. Ecco cosa sto cercando di fare,» disse con quella franchezza che è tipica solo dei giovani. «Sto cercando di abituarmi a guardare a fondo delle cose.»

«Così non c'è un problema. Nessun problema, anzi.» Pensai alla giornata che avevo avuto e ai lavori che ancora mi aspettavano e sbuffai. Poi mi venne un'idea e, con calma, tra un sorso e l'altro del mio whisky, cambiai il corso della civiltà terrestre. «Io ho dei problemi,» gli dissi. «Che ne diresti di dargli tu un'occhiata? Sei preso col lavoro adesso?»

«Mi trovo nel mio periodo free-lance,» disse. Ho finito l'istituto tecnico e prima di un anno non verrà il mio turno per l'analisi occupativa finale.»

«Molto bene,» dissi. «Che ne dici?»

Fece un lento cenno d'assenso.

«Se riesce a guardare a fondo bene come colpisce...» fece Mike.

 

Quando arrivò la telefonata dallo spazioporto ero già tornato in ufficio. Mi era già capitato altre volte di vedere Thuringer rosso in viso, ma mai così paonazzo. Faceva perfino fatica a parlare, ma alla fine riuscì a esclamare: «Qualcuno ha fatto un lavoro coi piedi quando ha sterilizzato i genitori del tuo nuovo assistente.»

«E quale sarebbe il guaio?» gli chiesi col mio tono più amabile.

«Il guaio! Il guaio è che il tuo assistente è deficiente, ecco tutto. Su questo non ci sono dubbi. Quando vedrai cos'ha fatto a...» Lo vidi rabbrividire. Allungò la mano per regolare il microfono, ma poi cambiò idea. «Va bene, vieni qui e guarda da te. Non ci crederai. Ma sbrigati a venire prima che vada anch'io a fare domanda di sterilizzazione!»

Avevamo una linea sotterranea privata di comunicazione con lo spazioporto perché usavano un sacco di nostri robot, per cui ci arrivai in meno di cinque minuti. Un robot parcheggiò il mio bus e un altro mi accompagnò all'ascensore. Fu un sollievo vederne due che funzionavano perfettamente, sebbene notassi che il secondo mostrava già segni di una incipiente paralisi del braccio sinistro. Dal momento che si serviva del destro per azionare l'ascensore, poco male, ma la Robinc si piccava di esigere la perfezione.

La segretaria robot di Thuringer mi disse: «Ufficio della torre,» così salii ancora. Il direttore dello spazìoporto mi esaminò al video e segnalò con un clic che il raggio era stato attivato. Quando la porta della torre si aprì, entrai.

Non so cosa mi fossi aspettato di vedere, ma certo non riuscivo a immaginare che cosa avesse potuto fare perdere a tal punto la calma a un tipo coriaceo come Thuringer. Questa era la prima volta che sottoponevo Quinby a una prova e si trattava di un lavoro normale, o almeno avrebbe dovuto essere normale in quei tempi folli. Il robot che manovrava la torre di controllo aveva le gambe e un braccio che non funzionavano. E lo avevano anche sentito dire delle cose strane sul raggio direzionale. Rispostacce ai piloti e brontolii da insubordinato.

La prima cosa che vidi fu una bella pila di rottami al centro della sala. Alcuni sembravano parti di robot. Poi vidi Thuringer che era passato dal color paonazzo a un nero rosato. «Sto ammattendo!» scoppiò. «Io me ne sto qui seduto a guardare e ammattisco! Faccia qualcosa, lei! Poi vada fuori e distrugga il suo assistente, ma prima faccia qualcosa!»

Guardai nella direzione da lui indicata. Ero già stato in quella sala della torre di controllo. Il pannello aveva un microfono, un altoparlante e un visore, oltre a un sistema di luci direzionali. Di fronte ad esso c'era una sedia su cui sedeva il robot, per parlare sul raggio direzionale e tenere sotto controllo gli indicatori.

Adesso però non c'erano né sedia né robot. C'era solo un tavolo e sul tavolo una scatola. E da quella scatola fuoriusciva un sol braccio che era vivo. Un braccio che azionava correttamente i comandi luminosi mentre dalla scatola usciva anche la familiare voce che guidava le astronavi all'atterraggio.

Feci un giro attorno al tavolo e studiai bene la parte frontale della scatola. La cosa aveva occhi, una bocca e un paio di fori che mi ci volle un minuto per capire che erano orecchie. Insomma era una linea con due fori di sopra e due sotto, così:

 

*                                           *

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*                                           *

 

Non assomigliava a nessun'altra faccia che avessi mai visto in natura, ma era chiaro che era in grado di vedere, sentire e parlare.

Thuringer emise un gemito. «E questa voi della Robinc la chiamereste riparazione! Il mio bel robot! Il mio Modello De-Luxe Superperfetto Tuttuso di Qualità Extra! Adesso di lui non rimane che questo,» mi indicò la scatola, «e questo,» e fece un altro gesto all'indirizzo dei rottami.

Fissai a lungo quella scatola e mi grattai la testa. «Ma funziona, no?»

«Funziona? Cosa? Oh, sì, certo che funziona.»

«Lei ha avuto modo di osservarlo. Preme i pulsanti giusti? Riceve bene i messaggi e dà le istruzioni che ci vogliono?»

«Oh, sì, direi di sì. Sì, per funzionare funziona. Ma maledizione, questo non è più un robot. Me l'avete rovinato tutto.»

La scatola interruppe un attimo il suo lavoro. «Rovinato un corno,» replicò con la stessa voce senza tono. «Non mi sono mai sentito così bene da quando sono stato animato. Grazie, capo.»

Thuringer strabuzzò gli occhi. Io feci per andarmene.

«Ma dove va adesso? Vuole lasciarmi così? Io esigo un altro robot Modello De Luxe, immediatamente, mi ha capito? E confido che vorrà uccidere il suo assistente.»

«Ucciderlo? Ma intendo coprirlo d'oro.»

«Ma senti...» Thuringer aveva appreso un vocabolario decisamente pittoresco quando aveva diretto lo spazioporto di Venusberg. «Farò in modo che lei venga licenziato oggi stesso dalla Robinc!»

«Me ne sono già andato,» risposi. «Un minuto fa.»

E fu così che avvenne la nascita di R.U.Q.

 

Trovai Quinby nel secondo posto della lista che gli avevo dato. In questo caso c'era da riparare un servitore domestico... un androide di Classe B con un'elegante rifinitura, ma non particolarmente specializzato come quelli commerciali.

Quando lo vidi rimasi a bocca spalancata per lo stupore. Invece di due braccia aveva quattro tentacoli che stava flettendo con aria intenta.

Quinby stava già rimettendo gli attrezzi nella cassetta. Mi guardò e sorrise. «È stato un lavoretto semplice semplice,» mi disse. «Aveva visto i robot martoidi al lavoro e si era reso conto che per fare i lavori di casa gli sarebbero stati molto più utili dei tentacoli flessibili che delle braccia snodabili. Così più ci pensava, più le sue braccia diventavano goffe e inutili. Ma adesso va benissimo, non trovi?»

«Benissimo, capo,» rispose il servitore.

«Nella cassetta c'erano parti di ricambio per martoidi,» mi spiegò Quinby, «poi ho fatto qualche modifica al circuito e...»

«Ma non hai pensato,» lo interruppi, «a cosa dirà la padrona di casa quando rientrando si troverà davanti ai tentacoli martodi del suo robot?»

«Be', no... perché, pensi che...»

«Pensaci bene,» gli dissi. «Quella donna si unirà al coro di tutti quelli che chiedono che io venga licenziato dalla Robinc. Ma non preoccuparti. La Robinc non significa niente per noi. D'ora in poi noi siamo noi e basta. Siamo la Us Incorporated, la Società Noi, e basta. Andiamo al Sunspot e vediamo di mettere tutto bene in chiaro.»

«Grazie, capo,» disse dietro di noi il semi-martoide tutto felice dei suoi tentacoli.

Ero così su di giri che ordinai un Triplanetario. Questa era davvero l'occasione adatta. Quinby invece si attenne al suo latte. Guzub si strinse nelle spalle, cioè corrugò la pelle dove avrebbero dovuto trovarsi le spalle sul suo corpo circolare e disse: «Mi sebrade felici, ragazzi. Buone notizie?»

Feci un cenno d'assenso. «Delle migliori, Guzub. Prendi nota che stai assistendo al brindisi di un evento che farà epoca.»

«L'uldima volta che lei ha fesdeggiado un evendo sdorico,» disse Guzub con aria rassegnata, «lei ha roddo seddandaquaddro bicchieri. Perché dovrei prendere noda?»

«Questa volta è diverso, Guz. Adesso,» dissi a Quinby, «dimmi come ha fatto a venirti questa incredibile idea di riparare così quelle macchine?»

«Perché, non è ovvio?» rispose con semplicità. «Quando Zwergenhaus ha inventato il primo robot, lui non pensava in termini di funzionalità, ma cercava semplicemente di costruire un uomo meccanico. C'è riuscito e ha fatto anche un buon lavoro. Ma è una follia. Perché l'uomo non è affatto un animale funzionale. Sono ben poche le cose che è in grado di fare da solo. Ciò che ha fatto di lui il capobranco è che è capace di inventare e usare gli attrezzi che gli servono per ciò che deve fare. Ma perché costruire anche dei servitori meccanici così handicappati?

«Tutti i robot, a parte forse qualche eccezione come i braccianti, sono in grado di fare solo una o due cose e le fanno a ripetizione. Benissimo. Allora facciamoli in modo che possano esplicare quei lavori nel modo migliore senza aggiungerci delle parti inutili. Diamogli un cervello, degli occhi e delle orecchie per ricevere i comandi e qualsiasi altro organo abbiano bisogno per il loro lavoro.

«Ecco qual è l'origine della epidemia che ha colpito tutti i vostri robot. Questi robot erano tutti sovraccarichi di cose che non servivano loro, gambe quando il loro lavoro era sedentario, due braccia, quando gliene serviva solo uno, oppure, come nel caso di quel robot servitore i loro organi sono stati progettati più per fare assomigliare i robot all'uomo che per farne delle parti funzionali. Il risultato: le parti in sovrappiù e non utilizzate si sono atrofizzate e i robot hanno cominciato ad ammalarsi fisicamente, e a volte anche mentalmente perché erano torturati dal pensiero delle loro potenzialità non realizzate. Non è stato difficile intuire la verità, una volta che ci si è pensato a fondo.»

Arrivò da bere. Io attaccai il Triplanetario con cautela. Conoscete anche voi la formula: una parte di Rum terrestre — a 170 gradi — una parte di margil venusiano e una spruzzata o due di vuzd marziano. È un liquore morbido e micidiale. Non ne avevo mai assaggiato uno così morbido come questo di Guzub e temevo che fosse ancora più micidiale.

«Tu conosci un po' la storia dei trasporti a motore?» continuò Quinby. «Va qualche volta a riguardarti i veicoli del ventesimo secolo e osserva come per quanto tempo hanno cercato di fare delle carrozze senza cavalli che assomigliassero in tutto e per tutto a una carrozza per cavalli. Noi abbiamo commesso lo stesso errore. Abbiamo cercato di costruire un corpo che non è umano a somiglianza di un uomo.»

«Figliolo,» gli dissi (Quinsby era cinque o dieci anni più giovane di me) «non hai davvero tutti i torti in questa teoria del guardare in fondo. Anzi hai tanta di quella ragione che non so neanche se tu te ne rendi effettivamente conto. Capisci che se affrontiamo come si deve questa faccenda potremo spazzare via la Robinc come ridere?»

Per poco non si ingozzò col suo latte. «Vuoi dire,» si azzardò a dire lentamente, come in un sogno, «che noi potremmo...»

«Ma naturalmente non si può farlo dall'oggi all'indomani. La gente è abituata a dei robot antropomorfi. Non riescono a immaginarsene altri. E le tue macchine disumane la terrorizzerà, proprio come è successo a Thuringer. Bisogna aprirsi la strada gradualmente. Fare un sacco di pubblicità. Un sacco di promozione. Articoli, conferenze, dibattiti. Dargli un nome. Un nome che sia azzeccato. Prendi per esempio il nome robot: quello ormai lo conoscono tutti perché deriva da una commedia scritta tanto tempo fa in qualche antica lingua slava. Bisogna invece che sia qualcosa come Quinby's Vattelapesca Robot...»

«Funzionoide?»

«Assomiglia un po' troppo a fungoide. Non mi piace. Ma vediamo...» Bevvi dell'altro Triplanetario. «Ho trovato. Usoforme. Quinby's Usoform Robots, ovvero Robot Usoformi Quinsby, abbreviato in Q.U.R.»

Quinby sorrise. «Mi piace. Ma non dovrebbe esserci anche il tuo nome?»

«Per quel che mi riguarda mi basterà una fetta dei proventi. Il mio nome non mi piace in modo particolare. Ciò che adesso dovremmo fare è di presentare il nome con un nuovo robot. Un robot che possa fare qualcosa che nessun androide della Robinc sia in grado di emulare...»

Guzub mi chiamò: «C'è qui un uomo che la cerca.»

Era Mike. «Salve, amico,» mi disse. «Mi stavo chiedendo se lei non avesse un minuto per ascoltare l'idea di mio cognato. Sa, riguardo quel nuovo tipo di robot...»

«Ehi, Guzub,» gridai. «Altri due Triplanetari, per favore.»

«Fa tre,» aggiunse Quinby senza alzare la voce.

 

Parlammo per tutto il resto della serata. Quando il Sunspot chiuse alla ventitré, in quel periodo stavamo attraversando un ciclo repressivo in fatto di leggi, ci trasferimmo nel mio appartamento e continuammo a discutere finché completamente esausti non cademmo addormentati nel punto in cui ci trovavamo.

L'unico bicchiere alcoolico bevuto da Quinby, e si fermò a quello, fu sufficiente per permettergli di vedere con maggior chiarezza che mai. Ci mise meno di un minuto per visualizzare completamente le possibilità offerte dall'idea di Mike.

Suo fratello era uno studioso a tempo perso del folklore e aveva letto da qualche parte dell'antica arte del rabdomante. Si era così subito reso conto che non poteva esserci nessuna particolare virtù nella bacchetta di nocciolo a due punte che si diceva individuasse la presenza d'acqua nella terra, ma solo che certi individui dovevano essere in grado di percepire quell'acqua grazie a un sesto senso supplementare che poi trasmetteva inconsciamente questa reazione alla bacchetta che il rabdomante stringeva in mano.

Insegnare a un essere umano a sviluppare questo sesto senso sarebbe stato probabilmente impossibile in quanto probabilmente si trattava semplicemente di una mutazione casuale. Ma si poteva cercare di svilupparlo nel cervello di un robot facendo esperimenti con i moduli della percezione sensoriale e in questo il cognato di Quinby era riuscito. Così aveva inserito in un robot un cervello che avrebbe infallibilmente registrata la presenza dell'acqua e adesso stava lavorando attorno alla possibilità di individuare anche il petrolio e altri depositi minerali. Non c'era davvero bisogno di sottolineare quanto fosse prezioso un robot del genere nel corso di qualche esplorazione o ricerche minerarie.

«D'accordo, allora,» disse Quinby. «E cosa serve a un robot oltre un cervello e gli organi di senso? Un mezzo di locomozione e un mezzo per segnare i punti da lui individuati. Inoltre verrà impiegato soprattutto in zone disagiate del deserto per cui dei cingoli gli saranno più utili di un paio di gambe con le quali potrebbe incespicare e cadere. In quanto al sistema per segnare i punti individuati, il sistema più sicuro e durevole è quello di usare delle aste metalliche. Perciò potrebbe trasportare queste aste e disporre di un braccio studiato apposta per piantarle, ma... sì, così sarebbe meglio: che ne diresti se le deponesse?»

«Deporle?» ripetei senza capire bene.

«Sì. Quando il suo senso dell'acqua registra l'intensità massima, cioè quando si trova proprio sopra una sorgente nascosta, avrà una reazione dello sfintere e plop, ecco che deporrà un'asta appuntita che conficcherà con forza nel suolo.»

Era una soluzione perfetta. E il robot sarebbe stato economico... in fondo si trattava solo di una cassa su cingoli con un cervello, degli organi di senso e una scorta di aste metalliche. E poi chissà, in qualche modello più sofisticato si sarebbe potuto inserire dei rottami metallici in modo che fosse lui stesso a costruirsi le aste. Ci sarebbe stata di certo una fortissima richiesta e la Robinc non aveva nessun modello competitivo. Una squadra esplorativa avrebbe potuto limitarsi a mandarlo fuori per una giornata intera e poi sarebbe ripassata sul suo percorso seguendo le tracce lasciate dai cingoli per perforare il terreno nei punti in cui fossero state piantate le aste. E la sua funzionalità sarebbe stato il primo passo della nostra campagna per abituare il pubblico ai Robot Usoformi di Quinsby.

Poi le idee vennero a carrettate. Quando i nostri occhi alla fine si chiusero per la stanchezza avevano già elaborato almeno settantatrè applicazioni in cui gli usoformi avrebbero spodestato gli androidi.

Mi risvegliai con tre sensazioni: la prima, un fermo proposito di attenermi d'ora in avanti al whisky e di lasciare i Triplanetari ai marziani che li avevano inventati. La seconda, che praticamente annullava ogni disagio, un brivido d'anticipazione delle meraviglie che ci aspettavano, la stessa sensazione che prova un bambino che al risveglio sa che quel giorno è il suo compleanno. Ma la terza sensazione, che mi rodeva come un tarlo, rovinandomi tutto il piacere, era il pensiero che c'era qualcosa di storto, qualcosa che avevamo trascurato.

Quinby ci stava preparando una bella colazione fatta con cibi freschi. Era un'occasione troppo nobile questa, diceva, per limitarsi a ingollare dei volgari concentrati e aveva buttato all'aria tutto il surgelatore per trovare quello che definiva del «cibo come si deve». Fu un piacere mangiare quella colazione, ma quel pensiero tormentoso non mi abbandonò. Alla fine mi scusai e andai in biblioteca dove trovai il libro che cercavo. Si trattava del Codice Civile Planetario. Volume XXXIV. Robot. Lo inserii nel proiettore lo feci rapidamente scorrere sullo schermo finché non trovai quel paragrafo che avevo ricordato così vagamente.

Sì, il tarlo aveva ben ragione di esserci. Adesso ricordavo bene. In teoria si era sempre ritenuto che questo paragrafo fosse stato inserito nel Codice solo perché la Robinc controllava l'uso del fattore che garantiva i robot contro possibili danni ad esseri intelligenti, ma io ho sempre sospettato che ci fossero sotto sotto anche altri motivi. A volte perfino i Membri del Consiglio si fanno ungere le zampacce.

Il paragrafo diceva:

259: Tutti i robot, fatta eccezione per quelli adibiti ad uso militare dell'Impero, devono essere costruiti in conformità dei brevetti di cui è proprietaria la Robots, Inc, conosciuta anche col nome di «Robinc». Qualsiasi altro robot costruito in violazione a questo paragrafo dovrà essere immediatamente distrutto e tutti coloro che si sono occupati della sua costruzione dovranno venire sterilizzati e quindi segregati.

 

Lo lessi ad alta voce ai miei soci. E non servì certo a sollevare gli spiriti.

«Sapevo che era troppo bello per essere vero,» grugnì Mike. «Vedo proprio la Robinc che va a concedere i suoi brevetti a quelli che le taglieranno l'erba di sotto i piedi.»

«Ma non è un nostro grande successo commerciale ciò che importa,» protestò Quinby. «Vi pare che noi vogliamo veramente... noi, o qualsiasi altro essere di buona volontà, diventare come i capi della Robinc?»

«Io sì,» confessò onestamente Mike.

«Ciò che importa è l'utilità di questa idea: si potrebbe così curare l'attuale epidemia robotica, conservare i materiali grezzi in edifici per robot, e creare un nuovo modo di vita più semplice e più sensato per tutti noi. Perché non passiamo l'idea alla Robinc?»

«Senti,» gli dissi con fare paziente. «Lasciando anche perdere le indegne ambizioni che possiamo albergare io e Mike, cosa succederà se lo facessimo? Cos'è che è sempre successo quando una grossa società compra i diritti per lo sfruttamento di un nuovo metodo quando già ha investito miliardi di crediti in quello vecchio? Mette il tutto in cassaforte e non se ne risente più parlare.»

«Questo è vero,» sospirò Quinby. «La Robinc strangolerebbe semplicemente il progetto.»

«Infatti. Adesso rifletti a fondo e dimmi cosa succederà ai Robot Usoformi Quinsby.»

«Be',» rispose lui in tutta semplicità. «Allora non c'è che una soluzione: modificare il codice.»

Emisi un lamento. «Tutto qui, eh? Semplicemente questo. Modificare il codice. E come ti proponi di riuscirci?»

«Si va dal Capo del Consiglio e gli si spiega cosa significa la nostra idea per il mondo... per tutto il sistema. È un brav'uomo. Ci ascolterà.»

«Dugg,» gli dissi, «quando tu guardi a fondo delle cose, non so mai se ci vedi una stupefacente verità o i concetti più sconclusionati che siano mai esistiti. Certo il Capo è un bravuomo. Se potesse aiutarci senza venire meno a troppi impegni politici credo che lo farebbe proprio di fronte a un'idea così grandiosa. Ma come si può arrivare fino a lui quando...»

«Mio cognato una volta ci ha provato,» intervenne Mike. «Solo che è stato un po' troppo insistente ed ecco come mai adesso è all'ospedale. Ehi.» si interruppe. «Dove va?»

«Muoviti, Dugg,» dissi. «Lei, Mike, oggi girerà per la città in cerca di un luogo adatto in cui far sorgere la fabbrica. Ci ritroveremo alle diciassette al Sunspot. Io e Quinby andremo a trovare il Capo del Consiglio.»

 

Incontrammo la prima sentinella a circa un chilometro e mezzo dal suo ufficio. «Riparazioni Robinc,» dissi e mostrai la mia tessera. Dopo tutto, avevo detto per calmare la coscienza di Quinby, non avevo ancora dato le dimissioni. «Vorrei controllare il robot del Capo.»

La sentinella annuì. «La sta aspettando.»

Non avevo dovuto neanche rompermi troppo il cervello per escogitare quella trovata. Con l'epidemia robotica che c'era in giro, era praticamente certo che almeno uno di quei robot direttamente dipendenti dal Capo avrebbe avuto bisogno di essere riparato. Quel trucco ci permise di attraversare un chilometro e mezzo di guardie, alcune robot, altre, più numerose del solito dopo tutto quel trambusto, umane e di arrivare alla fine alla presenza del Capo in persona.

I denti bianchi luccicarono su quel viso nero, con quel suo modo caratteristico di fare che ormai ci era così familiare alla televisione. «Vi ho ricevuti di persona,» disse, «perché la riparazione di questo robot è una questione strettamente confidenziale.»

«Quali sono i suoi compiti?» chiesi.

«È il mio decodificatore personale. È di primaria importanza che mi sia possibile tornare a servirmi di lui nel più breve tempo possibile.»

«E cos'ha di preciso?»

«Per quel che ne capisco si tratta in parte della solita faccenda. Paralisi delle gambe. Ma c'è dell'altro: continua a parlare ad alta voce snocciolando una sciocchezza dietro l'altra.»

A quel punto intervenne Quinby. «Per la precisione in cosa consiste il suo lavoro?»

Il Capo corrugò la fronte. «Gli assistenti gli portano tutti i messaggi in codice o cifrati. E poiché il suo cervello è appositamente costruito per la criptoanalisi risolve il problema posto dal codice, scrive il messaggio in chiaro e lo fa pervenire tramite un condotto pneumatico in uno scomparto sotto chiave della mia scrivania.»

«Usa dei libri?»

«Per alcuni codici sì. I cifrari invece sono interamente meccanici.»

Quinby fece un cenno d'assenso. «Allora possiamo risolvere il problema. Ci porti da lui.»

Il robot stava dicendo a se stesso: «Questo è il ponderoso periodo della decadenza dei riflessi sinaptici in cui tutti gli avari si trasformano in raggrinziti canguri.»

Quinby guardò il Capo che si stava allontanando. «Un giorno o l'altro,» disse, «finiremo col vedere un venusiano nella carica di Capo Interplanetario.»

Sbuffai.